Photos by Silvana Rizzi – Scattate con Iphone 7

Un po’ di storia…

Il mio primo viaggio in Birmania, oggi Myanmar, risale a vent’anni fa. L’occasione fu il varo del battello da crociera Road To Mandalay, super star dell’Orient Express, nato per navigare lungo il fiume Irrawaddy, linfa vitale del paese, da Bagan a Mandalay. Per festeggiare l’evento, il proprietario della compagnia, mister Sherwood, decide d’invitare al viaggio inaugurale un centinaio di amici illustri da tutto il mondo e una decina di giornalisti della stampa internazionale, tra cui la sottoscritta.

La nave è ormai pronta a salpare, quando le manovre s’interrompono all’improvviso. Tra lo stupore generale, lord Sittwel, gentiluomo inglese di antico lignaggio, sussurra che uno degli ospiti a bordo, dean dell’Università di Oxford, era andato segretamente a far visita a Aung San Suu Kyi, paladina della libertà agli arresti domiciliari a Yangon, per portarle notizie del marito inglese, docente nella sua università. L’incidente diplomatico rischiò di mettere a repentaglio il contratto commerciale tra Orient Express e governo birmano, tanto che, soltanto dopo una lunga trattativa, la nave sciolse gli ormeggi.

Oggi, la situazione politica è ben diversa. Il paese si sta lasciando alle spalle l’opprimente regime militare. Con la vittoria nelle elezioni nel 2015 del partito della Lega Nazionale per la Democrazia, basato sui principi di non violenza di Gandhi e di Buddha, San Suu Kyi è, anche se non formalmente, a capo del governo, perché, secondo la costituzione del paese, chi ha figli di un’altra nazionalità (i due figli sono inglesi) non può rivestire quella carica. Il suo compito ufficiale è quello di Ministro degli Esteri e Consigliera di Stato.

A portare negli ultimi tempi San Suu Kyi sulla stampa internazionale è il problema della minoranza etnica musulmana dei Rohingya. Vivono al confine con il Bangladesh nello stato di Rakhine e denunciano al mondo intero di essere perseguitati dai militari birmani. Una lettera inviata a fine dicembre 2016 da undici premi Nobel alla Signora del Myanmar la invita a intervenire per fermare questa “pulizia etnica”.

San Suu Kyi nega e fonti locali affidabili, da me interpellate, assicurano che tra i Rohingya ci sono pericolosi infiltrati della Jihad…..Dove è la verità?

Il Viaggio

Pagode dorate, rosse al tramonto, distese di templi di mille anni fa, una capitale in pieno fervore in contrasto con la vita dei contadini nelle campagne, gente simpatica e sorridente, impregnata di una cultura che ruota intorno a Buddha e ai suoi insegnamenti: meditazione, saggezza e rispetto per la natura.

Ecco le tappe di questo viaggio, che parte da Yangon e termina a Yangon: Mandalay, Bagan, Lago Inle, il Triangolo d’oro con Kengtung e le etnie della montagna a nord del paese.

A rendere unico il viaggio sono i percorsi in auto che ci hanno permesso di conoscere il territorio e i tre giorni passati a Kengtun, nello stato degli Shan, un tempo regno delle coltivazioni di oppio, abitate da etnie raggiungibili solo a piedi.

Yangon

Yangon, punto di partenza del viaggio, è una città piena di attività, aperta al commercio e agli investitori stranieri. Purtroppo a renderla difficile da visitare è il traffico infernale, che obbliga gli autisti a code interminabili. Il mio consiglio, quindi, è di scegliere un albergo in centro, in posizione strategica. Mi sono trovata benissimo al Kandawgyi Palace (www.kandawgyi-palace-hotel-yangon-myanmar), cinque stelle affacciato sul Royal Lake. Alla sera, dietro suggerimento della nostra guida Moe, a piedi siamo andati a cena in uno dei tanti ristorantini all’interno del parco del Royal Lake, con vista spettacolare sulla Shwedagon Pagoda, il must della visita a Yangon. Ideale è salire alla Shwedagon all’ora del tramonto, quando la luce del sole calante e la folla ininterrotta di fedeli lasciano un ricordo indimenticabile.

Yangon è anche il piacere di andare a piedi alla scoperta degli edifici coloniali della città, sedersi in qualche tipica sala da tè, come la Thone Pan Hla, assaggiare lo street food, il cibo da strada, a base di pesce, maiale, pollo e verdure alla griglia. Per quanto mi riguarda, ho assaggiato le tipiche frittelle birmane, dolci e salate. Davvero ottime.

Molto gettonato dai turisti è il Bogyoke Aung San Market, chiamato anche Scott Market, da visitare l’ultimo giorno, prima di salire su

ll’aereo per il rientro.

 

Mandalay sul fiume Irrawaddy

Ecco una città giovane, con poco più di un secolo di vita, a un’ora di volo da Yangon. Ha la fama di essere la culla della cultura buddhista, come testimonia la collina con chilometri di scalinate e un su

sseguirsi di pagode. Alla collina sacra preferiamo la visita al monastero buddhista Mahagandayon, il più importante del Myanmar, dove vivono oltre mille monaci in meditazione e studio. Peccato che alle undici del mattino il luogo venga invaso da un’orda di turisti, pronti a scattare le foto dei monaci mentre in fila si recano alla mensa, ognuno con la ciottola per il riso in mano.

 

Se Mahagandayon è preda dei turisti, il mercato della giada è quanto c’è di più autentico. Nelle stradine strette gli artigiani lavorano la giada, mentre i commercianti discutono il prezzo. Chi ha terminato il lavoro passa il tempo giocando con fervore ai dadi e a majong.

Il ricordo più bello di Mandalay è la gita ad Ava, antica capitale birmana, su un’isoletta a pochi minuti di traghetto da Inwa. In calesse si gira in mezzo alle piantagioni di banane, dove spuntano qua e là le rovine dell’antica capitale: monasteri, mura in mattoni, la piscina del palazzo ormai inesistente, templi suggestivi, statue di Buddha in mezzo alla foresta.

Da non perdere il pranzo al Royal Ava Restaurant, dove servono gamberi giganti, degni di un re, in mezzo a un prato, all’ombra di una tettoia in legno.

In auto da Mandalay a Bagan

Per scoprire il paese fuori dalle rotte turistiche, decidiamo di andare in auto da Mandalay a Bagan. Fantastico! La strada, senza traffico, corre lungo la campagna e i villaggi dalle case in legno, costruite su pali di teak e con le pareti in bambu intrecciato. Certo non durano più di un paio di anni, ma, per rifare le pareti e avere una casa nuova, bastano cinque o sei ore di lavoro. Ci fermiamo in un paio di villaggi. Moe ci introduce in varie case, tutte più o meno uguali. Ci accolgono le donne dal volto dipinto con la polvere di Thanaka, intente a cucinare e a selezionare le lenticchie. La cucina è all’aperto, con fuoco a legna, mentre al piano sopraelevato c’è la camera da letto. Gli uomini lavorano nei campi con mezzi ancora primitivi: l’aratro è tirato dai buoi, la semina viene fatta a mano, così come la raccolta di tutti i prodotti agricoli, dalle lenticchie, alla soia, alle zucchine. Nel primo, Tha-yat-kone, ci sediamo alla casa da tè, dove stanno friggendo ottimi bomboloni ripieni di cocco. Impossibile non assaggiarli. Nel secondo, Myit Tha, alle porte di Bagan, la casa da tè ha un aspetto più evoluto. All’aperto c’è un forno per la pizza dove un abilissimo ragazzino cuoce ottimi “dosa”, una specie di crepes alla francese. Se passate di qui non perdetevi né i samosa né il mercato di fronte, chiuso però nel giorno di luna piena.

 

Penso abbiate letto abbastanza, per ora. Le tappe più belle sul prossimo numero!

One Response to Ritorno in Myanmar Prima parte
  1. Viaggio, prima e seconda parte, che mi è piaciuto moltissimo e che amerei fare quanto prima. Un fil rouge che affascina e incanta. Grazie


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